Giuseppe “Peppino” Villa (1911-2006) fu una persona molto conosciuta a Crescenzago, dove nacque nella curt de la piatèra (via De Marchi Gherini 5). Prese parte alla spedizione militare della guerra Abissino-Etiopica del 1935-36; rimpatriato lavorò alla De Angeli Frua (tessuti), richiamato alle armi nel 1940, partecipò nell’inverno del 1941 alla guerra Greco-Albanese dove durante la prigionia gli furono amputate le gambe per rischio di gangrena causata da congelamento.
La mutilazione non minò il suo spirito e tornato a casa partecipò attivamente alla vita sociale di Crescenzago dove era benvoluto in tutti gli ambienti. Lavorò per quasi 30 anni alla “Magneti Marelli” di via Adriano dove fu rappresentante sindacale e membro dell’Associazione S. Vincenzo che si occupava di assistere le famiglie in difficoltà.
Fu da sempre un assiduo ed attivo frequentatore della Parrocchia S. Maria Rossa, fu chierichetto, catechista, animatore dell’oratorio S. Luigi e membro del coro in qualità di basso. Si impegnò molto anche nelle attività sociali, iscritto alla Democrazia Cristiana fu dirigente dell’Azione Cattolica Italiana e fu socio della “ Cooperativa Libertas”. Due dei suoi sei fratelli seguirono la vocazione religiosa: Giovanna suora Salesiana missionaria in Centro America e Paolo sacerdote diocesano attualmente presso la Parrocchia di Quinto Romano (Mi). La famiglia Villa compare sulla targa ricordo dei benefattori dell’Istituto Infantile di Crescenzago.
Di seguito una testimonianza sulla vita di Peppino Villa scritta da Marinella Valle.
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Un uomo con qualcosa in più
Era l’inverno del 1940 e in Europa imperversava la guerra. Si combatteva quasi ovunque e l’Italia era impegnata, insieme alla Germania, a condurre quella follia, nell’illusione che una vittoria militare avrebbe garantito il potere di pochi ed il benessere di molti.
Molti giovani Italiani furono mandati al fronte; troppi non tornarono più e, fra quelli che sopravvissero, non pochi tornarono portando impresse per sempre nel loro corpo, oltre che nella loro anima, le sofferenze e le violenze subite. Fra le vittime, ma anche fra i sopravvissuti, vi furono anche giovani di Crescenzago, e fra i secondi vi fu anche Giuseppe Villa (Peppino, per gli amici), classe 1911. Peppino dovette unirsi prima alle truppe che occuparono l’Abissinia, poi a quelle che combatterono sul fronte greco.
Quando il postino gli consegnò la prima lettera con cui veniva chiamato alle armi, Peppino ebbe un sussulto: sperava che quel momento non arrivasse mai.… Non voleva lasciare la sua famiglia, i suoi amici, la sua casa, la sua amata chiesa di Santa Maria Rossa, quell’antica abbazia che in cui entrava tanto spesso. Peppino era un fervente credente e partecipava attivamente alla vita della parrocchia: faceva parte del coro ed era dirigente dell’Azione Cattolica. Tremava al pensiero di non tornare più, di lasciare per sempre quella sua vita per andare a combattere una guerra in cui non credeva, una guerra ingiusta, come sono ingiuste tutte le guerre, una guerra che Dio non voleva, come non vuole tutte le guerre, ma sapeva anche che disertare sarebbe stato peggio, perché avrebbe messo certamente a repentaglio i suoi famigliari.
Si disse che avrebbe potuto servire il Signore essendo un buon soldato, un soldato che non andava in guerra per uccidere. Pregò il Signore di non doversi mai trovare a tu per tu con il nemico e di non dover soccombere all’istinto di salvare la propria vita a scapito di quella di un altro essere umano; pregò che gli fosse concessa la grazia di sopravvivere e di tornare a casa ed il Signore esaudì le sue preghiere. Peppino ritornò dall’Abissinia e ritornò indenne. Non pensava che dopo non molto tempo sarebbe stato richiamato di nuovo: stesso sussulto al cuore, stessa paura, stessa preghiera. Anche la seconda volta Peppino tornò, ma tornò mutilato.
L’inverno del 1940 fu particolarmente rigido in Grecia: nevicava spesso ed i cappotti non bastavano ad evitare che il freddo penetrasse nelle ossa dei giovani soldati; le scarpe e le calze erano sempre inzuppate, non si asciugavano mai: i piedi diventavano freddi e blu, fino ad irrigidirsi senza più muoversi. Molti soldati morirono a causa dei congelamenti, e quelli che non morirono non riuscirono a sfuggire al nemico e ad evitare di essere fatti prigionieri, ma per alcuni di loro la prigionia fu anche la salvezza, perché furono curati. Anche i piedi di Peppino a poco a poco divennero violacei: cominciò a non sentire più le dita, poi tutti i piedi, finché non riuscì più a camminare; anche lui fu fatto prigioniero e anche a lui la prigionia salvò la vita. I medici greci del campo in cui fu trasportato temevano che la gangrena raggiungesse le ginocchia e decisero di amputargli entrambe le gambe. L’operazione andò bene; Peppino si risvegliò e sopportò non solo il dolore delle ferite ma, soprattutto, il dolore di aver perduto per sempre una parte del proprio corpo. Peppino aveva ricevuto in dono non solo un fisico forte, ma anche un animo forte, che permise che la mutilazione fisica non mutilasse anche la sua vita.
Quando ritornò in Italia non si rassegnò a vivere da malato e sulle spalle della propria famiglia: aveva poco più di trent’anni e sperava di viverne ancora almeno altrettanti in cui poter ringraziare il Signore per il dono di essere tornato nel luogo in cui era nato e cresciuto, circondato dall’affetto di famigliari e amici. Dopo che le ferite si furono rimarginate definitivamente, un bravo ortopedico costruì per lui delle protesi e Peppino poté non solo riprendere a camminare, ma perfino ad andare in bicicletta, tant’è che, vedendolo pedalare sorridente, in modo sicuro e spedito, mai nessuno avrebbe pensato che quelle gambe non fossero le sue. Quando si rimise completamente, riprese a lavorare: dapprima cominciò ad aiutare i suoi fratelli nella latteria di via San Mamete 12, poi fu assunto come operaio alla Magneti Marelli. Si rese ben presto conto che in quegli anni così difficili per l’Italia potersi guadagnare il pane quotidiano ed avere quanto bastava per vivere era una grazia; intorno a lui c’erano, purtroppo, tante famiglie che la guerra aveva lasciato nella miseria: perciò, quando in azienda gli proposero di unirsi al gruppo della San Vincenzo, accettò volentieri, perché era convinto che il modo migliore per ringraziare il Signore dei doni ricevuti era quello di condividerli con gli altri. In quegli anni non c’era solamente la necessità di cibo, di denaro, ma c’era bisogno che l’uomo riconquistasse la fiducia nell’uomo, c’era bisogno di una pace che non fosse solo l’esito di trattati che avevano posto fine ai combattimenti e allo scoppio delle bombe, ma di una pace diversa, che fosse frutto di un amore più grande. Peppino era convinto che la pace potesse essere solo frutto della fede in Dio e in Suo figlio Gesù: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”; bisognava che le persone fossero aiutate a ricordarsi di questo, mentre allora l’ideologia marxista cercava di imporre un concetto di pace e di libertà svincolato da qualsiasi senso religioso e da qualsiasi fede (se non quella nel partito), fondata su un ordine e su principi di equità fissati esclusivamente dall’uomo. Peppino scese spesso in piazza insieme ai suoi amici durante i comizi a manifestare il proprio dissenso, perché era fermamente convinto che doveva essere ricostruita un’Italia in cui le istituzioni e la politica permettessero l’espressione della fede e dei valori cristiani.
Peppino aveva tanti amici, amici veri, persone che avevano a cuore la sua vita, e fra questi vi era don Enrico Bigatti, il coadiutore; fu proprio a don Enrico che Peppino manifestò il desiderio di trovare un’amicizia vera anche con una donna, di sposarsi e di avere una propria famiglia. Don Enrico fu dapprima un po’ sorpreso e non sapeva se rallegrarsi per il fatto che quel ragazzo avesse un desiderio così straordinario di vivere pienamente la vita, oppure se temere che forse nessuna donna avrebbe accettato di condividere la vita con un mutilato e che Peppino ne sarebbe rimasto deluso. Don Enrico prese tempo per pensare a quale delle “brave ragazze” di sua conoscenza non solo non fosse ancora sposata, ma soprattutto che avrebbe accettato di iniziare a frequentare Peppino; un giorno gli venne in mente Maria, Maria Merli… si, forse lei sarebbe stata la donna giusta! Il sacerdote decise di parlare alla ragazza: le disse che Peppino era un uomo forte, determinato, che amava davvero il Signore e che poteva essere certa che, se avesse tentato di avvicinarla, lo avrebbe fatto con le migliori intenzioni. Maria accettò, forse all’inizio più per obbedienza a don Enrico che per il desiderio di frequentare un uomo. Così don Enrico li presentò, pregando il Signore che le cose andassero nel migliore dei modi e che l’incontro fra quei due giovani facesse maturare una vocazione, qualunque essa fosse.
Maria lavorava alla Dr. A. Wander S.A. di via Meucci, azienda ove si produceva il Formitrol e l’Ovomaltina. La fabbrica era poco lontano dalla Magneti Marelli e Giuseppe cominciò così a farsi trovare all’uscita della fabbrica per accompagnarla alla fermata del tram per Cassano d’Adda, il paese di origine di Maria. A quei tempi non era in uso uscire spesso con una ragazza come avviene oggi, soprattutto agli inizi della frequentazione, e l’uscita dal lavoro e la Messa domenicale rappresentavano pressoché gli unici momenti di incontro tra ragazzi e ragazze che mostravano reciproca simpatia. Dalle parole scambiate nei brevi tragitti tra la fabbrica e la fermata del tram di via Padova, dai saluti rispettosi al termine delle Messe, dalle opinioni delle persone del quartiere, Maria intuì che Peppino rappresentava la possibilità che il Signore le offriva di realizzare il suo desiderio di diventare moglie e madre. Giuseppe era senza gambe, ma era pur sempre un bell’uomo e, soprattutto, possedeva una bellezza interiore che valeva ancora di più di quella fisica. Perciò, quando lui le chiese di sposarla, rispose con un sì convinto, nonostante la consapevolezza che il futuro avrebbe potuto riservare notevoli difficoltà. Si sposarono il 7 giugno del 1945. Ebbero quattro figlie: Giovanna, Luigia, Mariangela e Cesarina, che frequentarono l’Istituto Infantile di Crescenzago, di cui i coniugi Villa furono sempre fra i più assidui benefattori. Peppino e Maria dovevano continuare a lavorare, perciò avevano bisogno di un luogo che non solo custodisse le loro figlie, ma che le educasse secondo la fede cristiana, e quell’asilo, gestito dalle suore dell’ordine di Santa Marta, sembrava loro essere il luogo migliore. Il sostegno di Peppino e Maria non fu importante solo per il contributo economico, quanto piuttosto per l’interesse sempre vivo nei confronti delle suore e della vita dell’asilo. Anche in vecchiaia, quando Peppino ormai era sofferente ed immobilizzato, chiedeva sempre notizie a mio padre quando lo andava a trovare. Peppino e Maria dimostrarono che la carità non è soltanto donare qualcosa, del denaro, ma donare in letizia una parte di ciò che si ha, tanto o poco, e che ciò è possibile solo quando si riconosce che ciò che si ha è grazia. L’operosità e la provvidenza non fecero mai mancare il necessario alla famiglia Villa , nonostante le difficoltà; la casa era sempre ordinata ed accogliente; personalmente, ricordo ancora quando molti anni fa, Cesarina diresse con maestria bambine e ragazzine dell’oratorio nella recita “Marcellino pane e vino” e portò una ventina di giovani “attrici” a casa sua con tanto di costumi per prove straordinarie, circostanza che forse in altre famiglie avrebbe portato lo scompiglio, invece ai miei occhi di bambina la signora Maria sembrava quasi contenta di tutto quel movimento e per nulla agitata.
Peppino testimoniò con la sua vita che la fede cattolica genera un giudizio sulla vita, giudizio che può formarsi solo tramite un’educazione alla fede, nell’obbedienza al Papa e alla Chiesa; per questo lesse e conservò tutte le Encicliche. Prima di morire, invitò le figlie a portare avanti la tradizione cristiana. Fede, speranza, carità, appartenenza alla Chiesa sono l’eredità più preziosa che Peppino ha lasciato alla moglie, alle figlie e a chi lo incontrò. Ogni giorno abbracciò senza lamentarsi, fino all’ultimo respiro, la volontà di Dio, affidandosi totalmente a lui, sicuro che le circostanze date sono per il bene, finché il 14 Febbraio 2006 il Signore lo chiamò a sé. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Vimodrone.
Forse oggi Peppino sarebbe considerato da molte persone solo come un mutilato, come un uomo con qualcosa in meno; per quanto mi riguarda, Peppino fu un uomo con qualcosa in più.
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Marinella Valle Crescenzago, Settembre 2012